lunedì 26 ottobre 2009

GLI ARGOMENTI DELLA SETTIMANA - 19 – 25 OTTOBRE 2009

SENECTUS IPSA MORBUS

L’immagine più naturale di Eugenio Scalfari è quella del Maestro del sapere col ditino indice alzato. La barba bianca ben curata e l’impeccabile abito danno all’insieme un qualcosa che potremmo definire a mezza strada tra il profetico e il benevolmente maestoso. Manca il fumetto, in questa immagine, ma sappiamo già che sta dicendo: “Siete tutti dei poveri pirla, ora vi spiego io”. Ci spiega cosa? Ma tutto, ovviamente, perché la fonte del Sapere inesauribile è onnisciente, per definizione. I suoi allievi stanno ad ascoltarlo estasiati, e più che le parole percepiscono il fluido di saggezza che emana. Le donne lo guardano languorose perché, nonostante l’età, lo trovano ancora di un indiscutibile fascino. E lui pontifica, spiega, sparge con generosità la sua saggezza su un mondo che per un inspiegabile caso è pur vissuto per millenni e millenni senza di lui. Ma forse Scalfari non è nella dimensione del Tempo, perché la Sapienza non soffre di queste terrene restrizioni.

Eppure io continuo a preferire Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Eh, sì, perché i due comici siciliani ci hanno alluvionato per anni le sale cinematografiche con film così scemi che più scemi non potevano essere. Ma loro facevano i buffoni, era esattamente ciò che volevano fare, e lo sapevano fare da maestri. E si rideva, si rideva tanto, mentre il grande Eugenio ha la pretesa di fare il saggio comportandosi da buffone. Parliamoci chiaro: ciò che dice Scalfari potrà far fremere di emozione i frequentatori di salotti radical-chic, quelli stessi che nel 68 invitavano alle loro serate Mario Capanna, perché faceva tanto ma tanto chic avere in casa il rivoluzionario full-time, con barba e sguardo profondo, gran bel giovanotto e consolatore di nobildonne milanesi un po’ sfatte. Ma Scalfari oggi, come Capanna allora, non dice che un sacco di banalità, tritando e ritritando sempre gli stessi quattro concetti. Ma, visto che ha un uditorio, e che il suo vuoto pneumatico lo sa vendere, fa ancora buoni affari.

Insomma, finora aveva dimostrato di essere un venditore di aria fritta, ma tutt’altro che uno stupido.

Ora dobbiamo constatare con sincera tristezza che il grande Eugenio ha preso la strada del declino, ed essendo la stessa in discesa, non potrà che andare sempre più giù, sempre più giù. Del resto, ottantacinque anni sono un bel fardello, e anche se non è obbligatorio a quell’età incominciare a perder colpi, è di certo molto facile che accada. E il nostro Eugenio ha dimostrato come e quanto ormai abbia poche idee, ma ben confuse. Infatti possiamo accettare che da anni pretenda di indicare la strada politica da seguire (è pagato per farlo, del resto), che voglia dire un po’ di stupidate in genere sulla vita e sulla morte (quelle nessuno le ascolta, ma fa tanto tuttologo, che potrebbe fare un duetto con Adriano Celentano). Ma lo Scalfari teologo, questa è una novità che ci prende di sorpresa, anche perché, a parte che gli studi di teologia sono lunghi e complessi, ci viene da chiederci che senso abbia che un ateo dichiarato voglia occuparsi di teologia, che è poi lo studio di ciò che per lui non esiste. Mah! Profonda coerenza dei sapienti. E lo Scalfari teologo è emerso nell’Espresso del 23 ottobre. Sulla storica rivista, il grande Eugenio ha dedicato un po’ della sua saggezza a giudicare i Papi che negli ultimi decenni hanno retto le sorti della cristianità. E fin qui, nulla di strano, ognuno ha diritto di dire (nei limiti della civiltà e della buona educazione) ciò che vuole, anche sul Papa. Ma il grande Eugenio è miseramente crollato laddove ha voluto esprimere il suo giudizio negativo su Benedetto XVI definendolo un “modesto teologo”. Dell’attuale Pontefice i suoi detrattori hanno detto di tutto e di più, e alcuni, col plauso della sinistra democratica e antifascista e nata dalla Resistenza hanno anche impedito al Papa stesso di entrare all’università La Sapienza. Ma nessuno lo ha finora voluto svalutare come teologo, sia perché tanti suoi nemici hanno almeno l’intelligenza di non volersi avventurare su un terreno difficilissimo come quello della teologia, sia perché in questa materia Benedetto XVI è sempre stato riconosciuto come un Maestro, anche dai suoi più fieri, ma colti e preparati, avversari.

Ora è arrivato Eugenio Scalfari, Maestro di tutto e quindi anche di teologia. Già, perché per denunciare come “modesto” un teologo che da tutto il mondo (anche non cristiano) è riconosciuto come un Maestro, bisogna avere una solida, ma solida, preparazione teologica.

Mi dispiace davvero, caro dott. Scalfari. Da quando “la sera vi trovavate in via Veneto”, Lei ne ha fatta di strada. Ha fondato un quotidiano che scrive valanghe di panzane, ma è senza dubbio ben fatto. È diventato ricco e onorato. È diventato la Voce della Sinistra. Insomma, ha saputo sempre tenersi a galla senza perdere un colpo.

Ma ora ha perso una cosa che fa parte necessaria del patrimonio di chi voglia ergersi a saggio: il senso del ridicolo.

IUDICE, CURA TE IPSUM !

Cosa dite? Che mi sono sbagliato e che il motto latino diceva “Medice, cura te ipsum”, per ammonire quei medici che non sapevano avere cura d sé stessi? No, no, volevo proprio scrivere quello che ho scritto. Già, perché sempre più mi sembra che i nostri giudici siano bisognosi di cure, ammesso e non concesso (non sono medico, non lo so) che esistano cure contro la più sfrenata megalomania.

Un tempo felice il giudice era colui che rendeva giustizia, sulla base delle leggi vigenti. Ora che tutto è in continua evoluzione (il che non vuol dire affatto che stia migliorando), il giudice è sempre più un personaggio che della legge si disinteressa, come si disinteressa di quelle tradizioni millenarie che fanno ormai testo. No, il giudice, essere superiore (più che altro perché non è mai chiamato a pagare se commette castronerie), crea la norma, crea le nuove definizioni di Società, famiglia, libertà, e così via. La chiamano “giustizia creativa”. Peccato che, ammazzando la certezza del diritto, ci faccia retrocedere a prima dell’editto di Rotari, il che è senza dubbio un bel progresso sulla strada della civiltà.

Veniamo al fatto specifico. Da sempre convinto che la famiglia sia l’unione spirituale e materiale di un uomo e una donna, unione per sua natura feconda, e che come tale goda di garanzie di legge, leggo e constato di non aver capito niente. Niente di niente, perché i giudici della 2° sezione penale della Corte di Cassazione hanno di recente dichiarato in una sentenza che la famiglia è “ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”. E, ci specificano i maestri del diritto, perché un siffatto consorzio possa ben definirsi famiglia è sufficiente una “certa stabilità del rapporto”.

Parlavamo di megalomania. Già, perché solo chi sia afflitto da questa patologia può pensare di ridefinire, oltretutto con una genericità e una confusione sconfortanti, un istituto come la famiglia, che nella sua tipicità di unione feconda e stabile tra un uomo e una donna, ha solo qualche millennio. Secondo la “nuova” definizione di famiglia che ci viene sfornata dai magistrati di Cassazione, anche una caserma è una famiglia. A questo punto viene un fiero dubbi: i militari ivi alloggiati devono chiamare il comandante ancora “signor colonnello” o “papà” ?

Ma se un gruppo, misto o meno, di studenti e/o studentesse condivide una abitazione per un certo numero di anni, quelli pari alla durata del corso di laurea, questo gruppo è una famiglia?

Se Tizio, scapolo impenitente, ha tuttavia in casa una governante che lo accudisce per anni e anni, forma così una famiglia?

E potremmo andare avanti con mille esempi. Casi di convivenza per le più svariate ragioni, ce ne sono a centinaia. E bene o male vengono a crearsi le “strette relazioni e consuetudini di vita”, perché la convivenza comporta sempre una suddivisione di compiti, dei turni per badare alla casa, e così via. Quando poi un periodo di tempo si possa definire “apprezzabile” è tutto da capire. Magari i protagonisti di quella ignobile scemenza che è il “Grande fratello” costituiscono, anche senza saperlo, una famiglia.

Banalità, potreste dire, una sentenza non fa testo. Certo, banalità. Ma a parte il fatto che una sentenza di Cassazione diventa sempre un “orientamento” per gli altri livelli di giudizio, è difficile non restare stupiti davanti a questi giudici che ormai la norma non la leggono più, forse neppure la sanno. Creano, improvvisano, scordandosi che il creatore della legge è il Parlamento, non il giudice. Quest’ultimo è tenuto solo e unicamente ad applicare la legge, niente di più e niente di meno.

Accennavamo prima a una cosuccia che si chiama “certezza del diritto”. Si tratta di quella faccenda per cui il cittadino sa già quali sono le norme, a cosa va incontro violandole. Almeno, dovrebbe saperlo, perché le leggi sono scritte e pubblicate, e infatti nessuno può invocare a propria scusante l’ignoranza della legge.

Se viene a mancare la certezza del diritto, si entra nel campo dell’arbitrio, della totale incertezza in cui si insinua chi, esercitando un certo potere, crea la norma ad hoc. Uccidendo la certezza del diritti si inizia a uccidere la libertà delle persone.

Esattamente ciò che fanno i giudici che applicano la “giustizia creativa”.

Nessun commento: