lunedì 31 agosto 2009

L'ARGOMENTO DELLA SETTIMANA - 24 - 30 AGOSTO 2009

e anche questa settimana gli argomenti sono due. Iniziamo con:

OMOSESSUALI - OMOFOBIA ECCETERA

Tutti abbiamo letto di un deficiente romano, tale Alessandro Sardelli, detto "Svastichella", arrestato a Roma per aver accoltellato due omosessuali che si scambiavano effusioni in pubblico. E oggi (27 agosto) leggo sul Giornale di un tentativo di dar fuoco al locale "Muccassassina" di Roma (peraltro chiuso temporaneamente per lavori), che tra l'altro vanta l'onore (?) di aver dato i natali artistici al travestito Vladimiro Guadagno, alias Vladimir Luxuria.

Il sindaco di Roma, Alemanno, depreca con decisione questi atti di violenza e assicura che l'ordine pubblico nella capitale sarà sempre garantito, e che questi gesti hanno anche l'aggravante dell'omofobia.

Del resto, che poteva dire, il sindaco?

Io non sono sindaco di Roma, e quindi qualcosa in più lo dico, anche perchè, quando vedo che sugli stessi organi di stampa si dà meno rilevanza al caso del giovane alcolizzato inglese a cui i medici negano il trapianto del fegato (il giovane alcolizzato è un vero demente, ma i medici da quando hanno il potere di vita e di morte?), mi pare che si stia operando uno sballamento di valori abbastanza pauroso.

Ora, partiamo da un presupposto indiscutibile. L'accoltellatore di Roma, come il misterioso incendiario, non hanno alcuna giustificazione. Sono dei cretini, e dei cretini criminali. Personalmente vedere due uomini (o due donne) che si scambiano effusioni in pubblico mi fa un tantino schifo, ma se sono convinto che stiano dando pubblico scandalo, magari per la presenza di bambini, allora chiederò l'intervento delle forze di polizia. E se sono convinto che un locale sia un porcaio. non per questo ho il diritto di dargli fuoco.

Ma sono altrettanto convinto che i primi a doversi mettere una mano sulla coscienza (purché ne dispongano...) sono tutti quelli che in questi ultimi anni ci hanno sommerso di sconcia pubblicità omosessuale, di manifestazioni di "orgoglio" che stanno tra il comico e il vomitevole, di propaganda (anche nelle scuole!) assolutamente falsa e malata, per dimostrare che tra omosessualità ed eterosessualità non vi è alcuna differenza.

Tutti costoro ci hanno alluvionato con l'omosessualità, quasi che fosse un problema nazionale la "liberazione" dei vari invertiti, lesbiche, transgender (a tutt'oggi non ho capito di preciso cosa siano), trisessuali, eccetera eccetera. Questi sciagurati hanno fatto di un problema anzitutto personale e patologico, che colpisce peraltro una minoranza, una specie di vessillo, arrivando a impedire, col terrorismo psicologico, le cure psichiatriche (che spesso danno ottimi risultati) agli omosessuali desiderosi di tornare a una vita affettiva normale.

Gli omosessuali sono sempre esistiti, e, mi riferisco almeno al nostra Paese, nessuno ha mai impedito loro di lavorare, fare carriere, avere una vita normale. Soprattutto, una banale norma di civiltà voleva che si lasciassero in pace e nel silenzio, essendo spesso loro stessi i primi a vivere sofferenza e disagio dalla propria condizione.

Tanti anni fa avevo un collega omosessuale. Una persona squisita, correttissima, la cui omosessualità era nota, ma nessuno ne parlava nell'ambito del lavoro, proprio per rispetto al problema che quest'uomo viveva. Ricordo un particolare significativo: quando mi sposai, mi fece gli auguri e mi parlò di amore e di famiglia in un modo struggente, come avrebbe fatto chi a queste cose aspirava, ma si rendeva conto che erano per lui lontanissime.

Ora invece l'omosessuale è obbligato a gettarsi in piazza, a travestirsi da pagliaccio, a proclamare la sua patologia, né c'è la minima pietà per chi voglia mantenere nell'ambito del privato questa sua deviazione. L'omosessuale deve essere "orgoglioso" del suo stato.

Mi limiterei a una domandina semplice: "perchè"?

A quando le celebrazioni dell'orgoglio dei diabetici, o degli enfisematosi, o dei biondi e dei bruni, o degli zoppi, o dei sordomuti?

Direte: sono scemenze. OK. Ma cosa c'è di intelligente nel proclamare un orgoglio omosessuale?

Se pensiamo che personaggi come un Vladimiro Guadagno sono addirittura arrivati al Parlamento, c'è da rabbrividire. Le sua biografia è stata portata ed esempio di una vita coraggiosa e lodevole. Ad esempio, per pagarsi gli studi universitari spesso si prostituiva. Fantastico. Peccato che ci siano tanti giovani che si pagano gli studi facendo mestieri umili e faticosi...

E poi si è caduti nel delirio. Quando lo stesso suddetto travestito vinceva il bel malloppo in palio per la cretinissima "Isola dei famosi", Il Manifesto scriveva un articolo da neurodeliri, lodando la "donna che è tale perchè ha deciso di esserlo", in competizione con una concorrente (non ricordo il nome, e poi che se ne frega?), che era una donna con tutti gli attributi di donna. Insomma, il sesso uno se lo sceglie da solo. Non sono questi discorsi da manicomio?

Ergo, se cessasse questa tempesta di sesso al contrario, questo martellamento sugli omosessuali che sono uguali a noi, anzi magari migliori, che in ogni caso devono esternare con orgoglio la loro omosessualità, eccetera eccetera, se finalmente cessasse questo casino osceno e violento (violento anzitutto verso gli omosessuali stessi), si raggiungerebbero diversi risultati:

- anzitutto si permetterebbe agli omosessuali di vivere la propria condizione con la discrezione dovuta, e magari si permetterebbe anche, a coloro che lo desiderano, di farsi curare

- non si ecciterebbero cervelli deboli come quelli di un Alessandro Sardelli di Roma, convinto forse, nel suo delirio, di dover ripulire il mondo. Qualcuno forse ricorderà la coppia criminale che agiva a Milano sotto il nome di "Ludwig". Erano gli anni in cui imperversavano i cinema a luci rosse, ora soppiantati dalle videocassette. Ebbene, i due matti "Ludwig" tra l'latro dettero anche fuoco a un cinema di Milano, causando, se ben ricordo, anche la morte di alcuni spettatori.

Insomma, perchè non far tornare le cose nell'ambito di una sana normalità, senza proclamazioni cretine di orgoglio, senza esibizionismi, senza pagliacciate?

Col che non voglio assolutamente assolvere (l'ho già detto prima) accoltellatori e incendiari. Ma vorrei che quanti hanno fatto dell'omosessualità (una patologia che è sempre esistita) un motivo di grancassa politica, si mettessero una mano sulla coscienza. E' ovvio, come si diceva: la coscienza bisogna però averla...

E da ultimo, con un po' più di discrezione avremmo anche un altro risultato: il recupero di un sano senso del ridicolo, un bene antico che in Italia sembra smarrito.


e proseguiamo con:


I MEDICI HANNO DIRITTO DI VITA E DI MORTE SUL PAZIENTE ?


Il caso è noto. In Inghilterra un giovane, di sicuro degno di essere preso a calci, viene ricoverato in coma etilico dopo aver bevuto trenta (dicasi trenta!) lattine di birra. Roba da mandare in coma un bue. Quando i medici riescono in qualche modo a rianimarlo, il deficiente non trova di meglio che scappare per andare a ubriacarsi di nuovo. Ovvio rientro in ospedale, con un’epatite acuta e una prospettiva di vita di poche settimane. Il fegato di questo paziente è ormai ridotto a uno straccio, e solo un trapianto potrà salvargli la vita.

Ma i medici dell’ospedale in cui il ragazzo è ricoverato negano il trapianto. Il motivo? Il paziente non ha dato “segni di ravvedimento”, ossia non ha dimostrato di essere in grado di star lontano dall’alcol per almeno sei mesi. E quindi, che crepi.

I genitori ora si rivolgeranno a un tribunale, e staremo a vedere come finirà questa drammatica situazione, né conosciamo la legislazione inglese, per poter azzardare un pronostico.

Ma resta invece un discorso di fondo gravissimo e denso di preoccupanti sviluppi. Il giovane in questione è chiaramente un malato nella mente, ben prima che nel fegato. È uno dei tantissimi giovani britannici (ma non mancano nemmeno da noi) che affoga nell’alcol lo smarrimento di una generazione priva di valori e di punti di riferimento. È un aspirante suicida, questo credo sia chiaro a chiunque.

Ora, con quale autorità il medico, il cui compito è sempre e solo quello di curare e fare ogni possibile azione per salvare la vita del paziente, può ergersi a censore e giudicare chi è, o meno, meritevole di continuare a vivere?

Ci rendiamo conto benissimo che in materia di trapianti spesso il medico si trova di fronte a dilemmi che più che angosciosi sono tragici, laddove vi sia una richiesta eccessiva di organi sani a fronte della disponibilità degli stessi. Se devo effettuare un trapianto di cuore a due pazienti e dispongo di un solo cuore trapiantabile, dovrò operare una scelta lacerante e difficilissima.

Ma la motivazione dei medici inglesi prescinde dalla disponibilità di organi trapiantabili. Esplicitamente, il giovane, cretino quanto si vuole, ma anch’egli essere umano, non “è degno” di trapianto di fegato perché è, potremmo dire, uno che le grane va a cercarsele, e quindi vada pure in malora.

Se passa come lecita una condotta di questo tipo, in futuro non si dovranno più curare miriadi di malati o infortunati, perché sono tantissime le patologie derivanti da colpa del malato. Vogliamo fare solo alcuni esempi?

- incidentistica stradale. Perché curare chi ha causato l’incidente? Se avesse guidato bene, e non da cretino, non gli sarebbe accaduto nulla.

- E perché curare il tentato suicida, che non sia riuscito nel suo intento? O perché tentare di dissuaderlo?

- E se un malvivente viene ferito dalla polizia in una sparatoria, che ragione c’è di curarlo, quando solo la sua condotta illecita è la causa delle sue lesioni?

Eccetera, eccetera. Le cure, si sa, hanno un costo elevato, taluni interventi operatori e trapianti hanno un costo elevatissimo, che va a carico della comunità. E perché la comunità deve farsi carico di incoscienti, criminali, svitati, deviati? Molto meglio farli crepare, così il costo sarà limitato alla sepoltura, o nemmeno a quello, se provvedono i parenti…

Non sappiamo come andrà a finire il caso del giovane alcolizzato inglese. Ma possiamo dire con certezza che una volta di più stiamo assistendo al declino drammatico di una società basata sulla misericordia, sull’amore, di una Società cristiana. Alcune categorie, ebbre del potere di fatto che esercitano, cadono nel delirio pensando di disporre di una sorta di “ius vitae ac necis”. Magistrati che condannano a morte (guardiamo il caso, in Italia, di Eluana Englaro). Medici che condannano a morte (guardiamo il caso appena narrato in Inghilterra).

Una vecchia massima di saggezza diceva che “il potere assoluto corrompe assolutamente”, mentre la Storia ci insegna che i dittatori, se per troppo tempo esercitano il potere incontrastati, perdono il contatto con la realtà, e spesso perdono la ragione.

Magistrati e medici esercitano un potere incontrollato, né rispondono mai delle loro azioni. Di fatto sono dei dittatori, e se non sono retti da profondi riferimenti etici, a un certo punto sguazzano nell’autoesaltazione della loro potenza. E quale manifestazione di potenza supera quella di poter disporre della vita e della morte di un uomo?

Il piccolo borghese che, in divisa da ufficiale SS, con un cenno del dito decideva quali prigionieri, in discesa dai treni, dovevano andare a destra o a sinistra nel campo di sterminio, decideva chi doveva subito essere ucciso e chi invece doveva essere utilizzato come lavoratore-schiavo ed avere quindi qualche minima speranza di sopravvivenza.

Non per niente Eichmanno ebbe a dire di sé stesso, riferendosi ai dirigenti della comunità ebraica austriaca, perseguitati dopo l’annessione alla Germania: “Essi mi consideravano come una specie di dio…”

E con quale autorità un medico può giudicare chi è “degno” di vivere?

Se l’autorità è servizio, agisce per il bene della Società. Il Pontefice si fa chiamare “servus servorum Dei”. Ma se l’autorità è mero uso di potere, porta a risultati spaventosi, con un denominatore comune: il trionfo della morte.

domenica 23 agosto 2009

L'ARGOMENTO DELLA SETTIMANA - 17-23 AGOSTO 2009

Anzi, gli argomenti sarebbero due, ma sono uniti tra loro da un comune denominatore, ossia:

IL PUDORE E' STATO ASSASSINATO - NON E' STATA APERTA ALCUNA INDAGINE

C'era una volta a Torino, tanti anni fa, un giornalone che si chiamava La Stampa. Era un po' come il Corriere per Milano, o Il Mattino per Napoli. Era insomma uno di quei fogli che si usavano definire "autorevoli", sia per il livello dei giornalisti che li componevano, sia per la serietà di quanto si trovava scritto.

Con "c'era una volta" iniziano tutte le fiabe. E anche questa, come tutte le belle fiabe di una volta, si direbbe morta e sepolta.

Ma qui non abbiamo da raccontare fiabe, bensì realtà tutt'altro che belle ed edificanti. Mi riferisco a due episodi, che hanno vivacizzato un po' la settimana di fine vacanze, emergendo dal torrido caldo. In entrambi gli episodi si è avuta la conferma di un crimine: l'assassinio del pudore. E in entrambi gli episodi è implicato quello che, per colpa di persone evidentemente inadeguate che ormai lo guidano, è diventato uno dei tanti fogli, omologati, sciocchi, ripetitivi, che si stampano in Italia: l'ex giornalone di Torino, "La Stampa".

Il pudore è stato assassinato e di sicuro non verrà aperta alcuna indagine, perchè l'assassinio è stato consumato davanti agli occhi di tutti, però ha rispettato i canoni di quello strano gruppetto di marziani, tanto urlacchianti quanto minoritari, che continuano ad essere convinti di avere da spargere la verità su un povero popolo di imbecilli, ipnotizzati dalle tv di Berlusconi. Nel gruppetto ci sono giornalisti, politici (molti dei quali trombati alle ultime politiche), magistrati per i quali la legge è uguale per tutti (salvo il fatto che alcuni sono più uguali di altri). E ci sono quelli che si usa definire "maître à penser", ai quali vorrei sempre chiedere due cose: che pensano e come campano...

Ma passiamo ai fatti, iniziando da quello meno grave. Mercoledì 19 agosto La Stampa pubblica una prima pagine di Avvenire, il quotidiano della CEI, giornale i cui toni sono tra l'altro in genere consoni alla specificità dei suoi riferimenti. Orbene, in questa prima pagina di Avvenire, sulla quale La Stampa scrive: "Così Avvenire sul Presidente del consiglio", compare una foto del Papa e di Berlusconi con un titolo clamoroso: "Il Papa a sorpresa: Silvio, ora basta". Poi, nell'occhiello, lo stesso Pontefice dichiara: "mi aveva promesso politiche per la difesa della famiglia, poi ho scoperto che la famiglia era la sua e quella di suo fratello Paolo".

Ragazzi che roba! Il Papa che rimprovera così Berlusconi. E' tale l'entusiasmo dei pennivendoli della Stampa, che nessuno di loro si ferma un attimo a riflettere su alcune cose strane. Anzitutto il linguaggio del Papa, a dir poco inusuale, con quel "Silvio", e la battuta sarcastica sulle politiche per la famiglia. Quando mai un Pontefice si rivolgerebbe a un Capo del governo dandogli del tu e chiamandolo per nome? Poi è un po' strano che la super-notizia non sia già stata ripresa da altri giornali e dai notiziari radio e televisivi. Ma si sa, l'entusiasmo può giocare brutti scherzi e quando si tratta di sparare su Berlusconi non si guarda per il sottile. Magari non si ragiona nemmeno, tutti presi dall'ansia di dimostrare fino in fondo il proprio conformismo. Infatti con un minimo di ragionamento ci si soffermerebbe su una incongruenza: se quella è la prima pagina di Avvenire, come mai porta nella testata il logo speciale con cui il giornale della CEI celebrava i suoi quaranta anni di vita, il che avveniva nel 2007? Quindi è una prima pagina di due anni fa? Ma due anni fa non era al governo il Mortadella?

Insomma, come avrete già ben capito, si trattava di una colossale bufala. Un falso, uno scherzo goliardico, emerso in poche ore, quando qualche lettore si è stupito, interessato, ha telefonato ad altri giornali... Qualcuno aveva probabilmente fatto un po' di giri sul sito di Google, settore immagini, e aveva trovato questo fotomontaggio, che può risultare anche divertente per farsi quattro risate tra ragazzi. Ma da qui a pubblicarlo senza riflettere un attimo, scrivendo che quello era il giudizio del Pontefice su Berlusconi, riportato dal giornale della CEI, ce ne passa. Passa la differenza tra fare un quotidiano e fare un foglietto per ragazzini in vena di scherzi. Soprattutto passa la differenza tra fare il giornalista in modo serio e avere solo la preoccupazione, ossessiva ormai, di parlar male di Berlusconi.

Poi, le inevitabili imbarazzate dichiarazioni. Il direttore della Stampa era assente, e il capo-redattore, in sua vece, ammette la figura da pirla. Bontà sua. Il direttore di Avvenire, con molta sobrietà, si limita a dire che chiunque avrebbe dovuto capire che si trattava di un fotomontaggio. Dove quel "chiunque" vale più di mille critiche.

Ora, non si dica che a tutti può capitare un errore. Nel clima di linciaggio morale quotidiano che tutto un fronte della sinistra putrefatta alimenta contro Berlusconi, l'episodio è invece molto significativo. Un giornale serio in genere controlla le fonti. Ma davanti alla possibilità di sparare a zero sul Presidente del Consiglio, si perde la testa, si perde la capacità di ragionare, si perde quel pudore che contraddistingue in genere le persone serie.

E dispiace fare un'altra notazione. L'ex giornalone La Stampa è diretto da Mario Calabresi. Suo padre, il commissario Luigi Calabresi, morì assassinato proprio dopo una forsennata campagna di odio scatenata contro di lui da una sinistra irresponsabile a cui, anche allora, si erano accodati i soliti conformisti, sempre preoccupati di apparire più realisti del re. L’accusa rivolta al commissario Calabresi era del tutto infondata, ma la campagna di odio, ossessiva e martellante, fu tale da colpire a un certo punto qualche cervello più malato degli altri, e ad armare la mano assassina. Insomma, chi meglio di Mario Calabresi dovrebbe conoscere i terribili effetti a cui può portare la continua e maniacale istigazione all’odio?

e passiamo al secondo argomento...

Ma La Stampa in questa settimana ha voluto fare, in materia di assassinio del pudore, gli straordinari. E infatti non possiamo non notare un’altra chicca fantastica. E oscena.

Si parte da una notizia vera e drammatica. Un’infermiera dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino è indagata per omicidio. Si sospetta infatti che, iniettando a un malato in coma una dose eccessiva di antidolorifico, lo abbia ucciso, forse nella distorta convinzione di “abbreviarne le sofferenze”.

Orbene, non sarebbe che uno dei molti casi in cui menti malate e contorte si attribuiscono il diritto di decidere sulla vita e la morte di altri. Ogni omicidio, anche se il colpevole dal punto di vista giuridico era “in grado di intendere e di volere”, nasconde una patologia, un rapporto stralunato con gli altri e con la realtà. A questo punto può senza dubbio essere interessante, per un giornale serio, intervistare uno psichiatra, o un criminologo. Ma La Stampa vuole strafare e intervista il più accreditato esperto in Italia in materia di eutanasia (così viene chiamato il fatto di togliersi di dosso il fastidio di dover curare un malato. Basta ucciderlo). Chi meglio di Beppino Englaro, l’uomo che ha dedicato anni della sua esistenza per realizzare il suo progetto di accoppare la figlia, può parlare di eutanasia?

Al Beppino, che ammazzando una figlia ha potuto tra l’altro soddisfare il suo scatenato narcisismo, non par vero di dire la sua. Aveva promesso mille volte di “non parlare più” e mille volte aveva bluffato. Aveva assicurato che non si sarebbe dato alla politica e ora sta sgomitando per trovare anche lui un posto al sole nel coso, nel PD. (mi si consenta: quasi un anno fa, sulle pagine del forum di Storia Libera dedicate all’eutanasia, scrivevo che era da attendersi una trionfale entrata in politica del Beppino. Allora qualcuno mi diede della carogna, dell’uomo cinico che non rispettava il dolore di un padre…).

Orbene, se il Beppino fosse un uomo e non un quaquaraqua, avrebbe rifiutato l’intervista, impegnato a macerarsi nel suo dolore e magari, addirittura, a chiedersi la liceità di quanto aveva fatto. Ma il Beppino non è un uomo: è un piccolo omarino, a cui la ribalta piace in modo devastante e che per averla non ha esitato ad ammazzare sua figlia. È senza dubbio un malato, ma un malato pericoloso, perché privo di ogni senso morale. E rilascia un’intervista a dir poco pazzesca. “E’ un caso sconvolgente perché la persona… non ha fornito elementi per stabilire quale fosse la sua volontà”. E poi: “… medici e infermieri sono chiamati deontologicamente e giuridicamente a salvare la vita dei pazienti”.

C’è da restare allibiti. Questo omarino, che senza poter fornire alcuna prova delle reali volontà della figlia, ha martellato per anni finché ha trovato i magistrati giusti per omologare la sua fissazione, al quale è venuto in soccorso addirittura il comunista Napolitano, bloccando il decreto legge con cui il governo aveva tentato tardivamente di salvare la vita di Eluana Englaro, questo omarino ha la spudoratezza di parlare di “dovere” del personale sanitario di salvare la vita del paziente? Lui che si è dato da fare proprio per trovare il personale sanitario disposto a seguirlo nella sua malata strada di distruzione?

E poi, che vorrebbe mai dire la fola delle “volontà” del paziente? La vita non è una proprietà privata, tant’è che si cerca anche di salvare l’aspirante suicida, che pur da una dimostrazione inequivocabile della sua volontà di morire.

Ma questi sono i devastanti risultati del relativismo: non esistono più regole (tanto meno quelle cristiane: sarebbe uno scandaloso attentato al feticcio dello Stato laico!) e a poco a poco la mente si disperde, perché non ha più punti di riferimento.

Il relativismo crea dei mostri. Nella fattispecie, ha creato un padre capace di volere una cosa contro natura, come la morte della figlia.

E dallo splendido incontro tra La Stampa, ex giornalone, e Beppino Englaro, ex uomo, abbiamo questa chicca. Beppino Englaro che si scaglia contro l’eutanasia. Insomma, se non è fatta da lui, non va bene

Tanti sinistrati dedicano gran parte del loro tempo a elencare le scellerataggini sessuali- vere o presunte – del Presidente del consiglio. Ma qualcuno si rende conto dell’abisso in cui si sta precipitando? Qualcuno si rende conto che la vita umana ha sempre meno valore, tant’è che un figuro come il Beppino (che starebbe bene in una buona e solida cella, con chiave buttata in mare) diventa una star?

Dottor Mario Calabresi, dica qualcosa! Almeno, sul suo ex giornalone faccia pubblicare un necrologio del pudore. Può sempre scrivere che è stata ucciso perché figlio di una visione superata della Società…

Per la cronaca: Beppino Englaro sarà una delle attrazioni della Festa del coso,del PD, di Piacenza. Alle ore 18 del 6 settembre terrà anche un comizio. Se qualcuno non sa dove andare a vomitare, ecco fornito un indirizzo sicuro

mercoledì 19 agosto 2009

TAR DEL LAZIO E INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA

Ricevo dal carissimo Don Gabriele Mangiarotti, direttore del sito www.cultura cattolica.it questo articolo, redatto dall' avv. Stefano Spinelli, Presidente della sezione di Forlì-Cesena dell'Unione Giuristi Cattolici. Poichè si tratta di un testo di grande chiarezza ed efficacia, ho il piacere di proporlo a quanti seguono il mio blog, ringraziando di cuore il caro amico Don Gabriele Mangiarotti, da sempre sul fronte dell'affermazione della Verità e della libertà di cultura.

L’insegnante (di religione cattolica) dimezzato

1. Un insegnante a metà (come il “visconte” di Calvino), un “quasi” insegnante. Deve insegnare (lo dice il nome), ma non troppo. Che cosa debba insegnare, poi, è tutto dire, visto che non deve urtare le suscettibilità di nessuno. Soprattutto quest’insegnante di religione cattolica non dovrebbe parlare di religione cattolica, argomento che – riguardando una scelta “coinvolgente l’interiorità della persona” – lederebbe le altre religiosità interiori.

In ossequio a questo – purtroppo comune ma errato – modo di pensare, si è pensato bene di togliergli anche “il voto”, espressione della sua attività valutativa (ed è noto che un insegnante senza voto è come un cavaliere senza cavallo o un visconte senza contea).

Così, la magistratura ha statuito che l’insegnante di religione non può partecipare “a pieno titolo” agli scrutini scolastici, né può far conseguire crediti formativi agli studenti cosiddetti “avvalentisi”, per presunta disparità di trattamento nei confronti di quelli non avvalentisi: “l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti o dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un titolo formativo nelle proprie confessioni (islamica, ebrea, cristiane, di altro tipo) ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica”.

Questa è la novità di oggi, sancita dal T.A.R. Lazio, nella sentenza 7076 (che ha annullato due ordinanze dell’ex Ministro dell’Istruzione Fioroni), pubblicata poco prima di ferragosto, la cui notizia è comparsa sui principali giornali, con seguito inevitabile di commenti e dichiarazione dell’attuale Ministro Gelmini di appellarsi al Consiglio di Stato.

1.1. La sentenza ha annullato le ordinanze ministeriali 26/07 e 30/08, aventi ad oggetto le istruzioni per lo svolgimento degli esami di stato per gli anni scolastici 2006/2007 e 2007/2008, nella parte in cui prevedono che i docenti di religione partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento.

Il ricorso era stato proposto da varie consulte per la laicità delle istituzioni (tra cui il comitato bolognese scuola e costituzione e quello torinese per la laicità della scuola, nonché il centro di iniziativa democratica degli insegnanti e democrazia laica), da varie associazioni cd. per il libero pensiero, da varie associazioni delle chiese evangeliche, da altre riferibile alle chiese avventiste, alla chiesa battista, alla tavola valdese, alle chiese pentecostali, alla chiesa evangelica luterana, dall’unione delle comunità ebraiche italiane, il tutto sotto la supervisione dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (leggi: Odifreddi).

Colpisce questo mix di chiese, democrazia, ateismo, laicità, libero pensiero, razionalismo.

2. Ma che razza di insegnante è quello al quale sarebbe impedito di partecipare a pieno titolo alla valutazione degli studenti?

È evidente qui la volontà di depotenziare dall’interno l’insegnante di religione, vista l’impossibilità di sopprimerlo come figura ormai presente nel panorama scolastico italiano, grazie all’art. 9 del Concordato, che prevede espressamente l’ora di religione cattolica nelle scuole pubbliche per il suo valore storico-culturale, e grazie alle sentenze della Corte Costituzionale che hanno più volte confermato la legittimità dell’ora di religione (specie con la pronuncia 203 del 1989).

Se è legittima la presenza dell’insegnante di religione cattolica nella scuola pubblica, allora la sua attività educativa e valutativa deve essere quella di tutti gli altri insegnanti.

Un insegnante “intero”, non dimezzato. Altrimenti è un'altra cosa. Altrimenti è tutta una farsa: il Concordato dice che “continua ad essere assicurato l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica” e i giudici interpretano quella norma nel senso che però quell’insegnamento non è propriamente tale, perché non può essere insegnato da insegnanti-insegnanti, bensì da pseudo-insegnanti, che non partecipano agli scrutini e non danno crediti scolastici né formativi. Il problema non è semplicemente che così si crea l’insegnante di serie B, ma l’esito veramente discriminante è che lo stesso insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica diventa uno scherzo (con buona pace del Concordato).

3. E dove sta scritta la conclusione a cui arrivano i giudici? Da nessuna parte, trattandosi di una loro interpretazione della stessa norma concordataria, alla luce di un malinteso principio costituzionale di laicità dello Stato e di non discriminazione nei confronti degli studenti non avvalentisi.

3.1. Vediamoli allora questi due principi.

Secondo i giudici amministrativi in un “regime di pluralismo confessionale e culturale” lo Stato dovrebbe porsi in condizione di assoluta “neutralità” rispetto alle “differenti credenze religiose” che convivono all’interno delle “moderne società democratiche”, in cui “non può manifestarsi una preferenza per una particolare confessione o fede religiosa”. “Certamente – afferma la sentenza – può essere considerata una violazione del principio di pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con una implicita promessa di vantaggi didattici”, in quanto “le cd. materie alternative spesso o non vengono attivate affatto per mancanza di risorse ovvero nella realtà delle cose si riducono al semplice parcheggio degli alunni in qualche aula”. Di conseguenza, il sistema attuale comporterebbe “che le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione cui non credono, ovvero a subire un’ulteriore discriminazione di carattere religioso” ed avrebbe “l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza… in vista di un punteggio più vantaggioso nel credito scolastico”.

Non par vero, ma questa è la motivazione: trattasi di un caso sotterraneo di “violazione delle coscienze”, per cui lo studente non cattolico sarebbe indotto e costretto ad “abiurare” il proprio credo, il proprio ateismo o agnosticismo… per ottenere un credito scolastico!

In verità, in giro per le scuole pubbliche italiane non vediamo proprio tutti questi studenti correre verso l’ora di religione con l’obiettivo di avere più crediti. Né vediamo alcuna “violazione delle coscienze” nel fatto che l’insegnante di religione partecipi agli scrutini: la “sorte” di uno studente non è certo legata a detto insegnamento (come ognuno ben sa). E comunque, avvalersi dell’ora di religione non vuol certo dire essere o diventare cattolici, o – come detto in sentenza – “accettare l’insegnamento di una religione in cui non si crede” (e subire quindi una “discriminazione di carattere religioso”). Vi può partecipare, infatti, anche chi ha un mero interesse alla cultura cattolica ed alla dottrina della Chiesa. Allo stesso modo, chi studia Dante o Jacopone da Todi – a dire il vero sempre meno – non può certo dirsi, per ciò solo stesso, fedele in Cristo né che abbia “accettato” l’insegnamento che da essi proviene (altrimenti anche in questo caso dovremmo parlare di “discriminazione di carattere religioso”).

Ci sbaglieremo, ma l’argomento sembra abbastanza tortuoso e molto pretestuoso.

A ben vedere, poi, esso presuppone un dato di fatto (e non di diritto) del tutto inconsistente: le materie alternative spesso non vengono attivate. Ma ciò – se anche fosse vero – evidenzia semmai un problema organizzativo, ossia l’attivazione anche degli insegnamenti alternativi (sempre che ve ne sia richiesta, ciò di cui si dubita fortemente). Ma sulla base del solo fatto che “spesso” questi ultimi non vengono attivati, pare non propriamente corretto concludere che… allora i professori di religione non possono più in nessun caso fare scrutini o dare crediti perché altrimenti si altera il principio di laicità dello Stato!

3.1.2. In ogni caso, il ragionamento dei giudici parte da un presupposto che non si condivide (il che non è certo determinante) ma che non corrisponde neppure all’interpretazione delle norme costituzionali così come già offerta – in diverse occasioni – dalla stessa Corte Costituzionale.

Quest’ultima, in particolare nella sentenza 203 del 12 aprile 1989, definisce “il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.”. Esso “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (a seguito della abrogazione del principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato).

Trattasi di definizione adottata “in positivo”: non mera neutralità dello Stato verso le varie confessioni e – per traslato – neppure necessità che le varie religioni abbiano uno stesso identico trattamento e rilevanza nell’ambito dell’ordinamento giuridico (come da molte parti si vorrebbe); bensì garanzia e tutela da parte dello Stato per l’aspetto religioso, in tutte le sue espressioni, ciascuna ovviamente con la sua specificità.

Questa attenzione e questa garanzia ben può assumere “intensità” differenti, in ragione dei contenuti e della cultura religiosa di riferimento

Si badi bene che, proprio sulla base di detto principio, la Consulta ha più volte confermato la legittimità dell’ora di religione cattolica nella scuola pubblica “impartito in conformità alla dottrina della Chiesa”, la cui assicurazione da parte dello Stato è stata motivata sotto un duplice aspetto: a) “il valore della cultura religiosa” in quanto tale, formativo di per sé; b) “tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (elemento specifico della religiosità cattolica in Italia) (art.9, co. 2, della Legge 121/1985; e punto 5, lett. a del protocollo Addizionale).

Lo Stato deve quindi assicurare l’insegnamento della religione cattolica, il quale è facoltativo nel senso che soltanto l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.

Una volta verificatasi tale condizione, detto insegnamento è un insegnamento scolastico a tutti gli effetti, soggetto a tutte le regole proprie di ogni insegnamento, sia didattiche che valutative, senza alcuna limitazione, che sarebbe – questa sì – discriminante rispetto agli studenti avvalentisi.

3.1.3. In conclusione, non si può applicare (l’errato) principio di neutralità dello Stato per sostenere l’illegittimità del voto/credito dato dall’insegnante di religione, per il semplice fatto che detto principio, a monte, non è stato applicato per sostenere l’illegittimità dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, che difatti viene assicurata dallo Stato (a differenza, per esempio delle altre confessioni religiose).

3.2. A queste considerazioni segue anche la ritenuta erronea applicazione – da parte dei giudici – del principio di non discriminazione, che ha riferimento nell’art. 3 Cost.

E’ infatti evidente che, se a posizioni eguali è ragionevole che corrisponda un eguale trattamento, allo stesso modo, a posizioni differenti è ragionevole che corrisponda un trattamento differente.

I giudici sostengono che chi non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica è discriminato per il fatto che “lo Stato non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni (islamica, ebrea, cristiane di altro rito) ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione”.

Anche in tal caso l’argomento pare pretestuoso, se non altro per il fatto che i crediti formativi sono acquisibili anche grazie ad attività eventualmente svolte fuori dalla scuola, esprimendo generiche esperienze da cui possano derivare competenze coerenti con il tipo di corso cui si riferisce l’esame di stato. Essi sono quindi diversificati per ciascun alunno e non certo riconducibili al principio di non discriminazione.

3.2.1. Ma anche in tal caso si vuole andare al nocciolo della questione.

Per il nostro ordinamento – con particolare riguardo all’art. 9 del Concordato – la religione cattolica (pur non essendo più unica religione di Stato) non è sullo stesso piano delle altre confessioni, rappresentando un valore storico-culturale che – volenti o nolenti – appartiene a tutti ed è riconoscibile da tutti. Su questo presupposto, il nostro ordinamento dispone (e ne è stata affermata la legittimità) di continuare ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica (per chi ne voglia far opzione).

La medesima intensità di garanzia non vige in egual modo per le altre confessioni religiose (il cui insegnamento non è parimenti assicurato dallo Stato).

Orbene, le diverse situazioni di partenza giustificano anche un diverso trattamento: l’assicurazione da parte dello Stato dell’insegnamento della religione cattolica determina la subordinazione degli studenti agli esiti (favorevoli o sfavorevoli, a seconda dello studio o dell’impegno) propri di ogni insegnamento e la loro soggezione alla valutazione anche dell’insegnante di religione.

La medesima regolamentazione non sussiste per altri insegnamenti religiosi. Né questi ultimi possono quindi “limitare” il libero e regolare svolgersi dell’insegnamento della religione cattolica (compresi voti e crediti), accampando a motivo la mancanza di un identica regolamentazione anche per loro.

3.2.2. In conclusione, poiché l’assicurazione dell’ora di religione vale solo per quella cattolica, sulla base dell’inculturazione che la fede ha trasmesso e trasmette tuttora alla nostra società, l’attribuzione di crediti formativi agli studenti avvalentisi non produce discriminazione nei confronti di quelli non avvalentisi, per le cui confessioni religiose non è prevista dall’ordinamento una analoga considerazione e protezione.

4. Si rileva, infine, che le conclusioni cui giunge la sentenza non sono affatto suffragate da alcuna norma giuridica. Anzi. La norma giuridica esiste (art. 9 della Legge 121 del 1985) e dice tutto il contrario della sentenza, assicurando l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, purché facoltativo.

Ciò è tanto vero che gli stessi ricorrenti avevano chiesto ai giudici di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma davanti alla Corte Costituzionale. I giudici hanno ritenuto invece di arrivare, con la sola interpretazione della norma “costituzionalmente orientata”, coma va di moda sottolineare oggi, a far dire alla norma qualcosa che non dice assolutamente (ossia che l’insegnante di religione non dovrebbe partecipare a pieno titolo agli scrutini).

In sostanza, si rileva una odierna tendenza giudiziale a riferirsi direttamente alla Costituzione ed alla sua – più o meno estesa ed a volte fantasiosa – interpretazione per innovare l’ordinamento giuridico mediante decisioni che assumono sempre più natura e contenuto di vere e proprie norme giuridiche, bypassando completamente il Legislatore ed il Parlamento nella funzione costituzionale riservatagli.

Si ritiene che detta tendenza (si fa qui riferimento anche al caso Englaro, ove si è utilizzato il medesimo meccanismo di applicazione diretta di norme costituzionali interpretate in modo tale da individuare il principio giuridico inesistente a livello normativo ed anzi profondamente contrastante con altre norme penali vigenti e peraltro chiarissime) ponga un problema di democraticità sotto due aspetti.

a) In primo luogo, la Costituzione contiene per la maggior parte norme cd. di principio, ossia diritti enunciati genericamente o indirizzi programmatici da perseguire.

Ora, più la norma è “di principio” e più la sua gamma di possibili interpretazioni è vasta, arrivando sino a possibili contenuti che mal si conciliano con il testo letterale e probabilmente con la volontà costituente. Il pericolo è peraltro maggiore in quanto spesso la norma costituzionale viene interpretata unita ad un’altra norma sempre di principio.

b) Mediante detto meccanismo la Costituzione viene quindi utilizzata per “riempire” vuoti normativi o per estrapolare dal magma interpretativo un specie di “super norma”, di valore costituzionale, rispetto alla quale conformare l’ordinamento vigente.

Sempre più spesso, cioè, il giudice, attraverso il suo controllo di costituzionalità cd. “diffuso” diventa – lui stesso – legislatore.

Si ritiene che ciò determini un problema di democraticità, non essendo il giudice rappresentativo della volontà popolare al pari del legislatore.

5. Al di là delle argomentazioni giuridiche, si vuole proporre una considerazione finale.

Tutta la sentenza è percorsa da un filo conduttore di fondo, secondo il quale la religione non sarebbe una materia scolastica come le altre, per il fatto che sarebbe “un insegnamento di pregnante rilievo morale ed etico che, come tale, abbraccia quindi l’intimo profondo della persona che vi aderisce” (inoltre “la sfera religiosa spetta indifferentemente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici”). E’ per questo motivo che non potrebbe “manifestarsi un preferenza per una particolare confessione o fede religiosa”, dovendosi “garantire il ruolo imparziale dello Stato”, pena la violazione della libertà di coscienza nelle questioni religiose.

Vi è – in tale assunto – una concezione dissociata di uomo, scisso irrimediabilmente tra sfera materiale e spirituale, tra corpo e anima, tra terra e cielo.

Le due parti non sono connesse: la seconda non può esprimersi in nessun modo a livello cosciente ed esterno, perché è un fatto del tutto personale ed intimo che riguarda la propria coscienza. In un “ordinamento democratico moderno”, caratterizzato da pluralismo e relativismo, la “sfera religiosa” deve annullarsi esternamente, perché una qualunque manifestazione esterna – dalla sfera spirituale alla sfera materiale umana – potrebbe “alterare” il precario equilibrio di coscienze religiose (o atee) diverse coabitanti assieme, ed il ruolo di “gendarme” imparziale dello Stato non potrebbe permetterlo.

In questo modo, trattando il fenomeno religioso solo intimisticamente, si annulla del tutto ogni valore religioso nell’uomo, ma si annulla, del pari, lo stesso uomo, la sua stessa natura, che fortunatamente è un insieme non dissociabile di corpo e anima. Come altrimenti comprendere tutto quanto di materiale (arte, cultura, opere, attività) ci ha lasciato la fede cattolica? Forse che I Promessi Sposi sarebbero pensabili costretti nella sola sfera della coscienza del Manzoni? E la basilica di San Pietro? E la Pietà di Michelangelo? E l’opera di Madre Teresa a Calcutta?

Tutto questo altera le coscienze di chi non ha la fede cattolica?

E lo Stato dovrebbe non riconoscere tutto questo come “proprio” patrimonio storico culturale e religioso, dovrebbe rimanere indifferente, neutrale, per non urtare le coscienze altrui? Non è invece importante che lo Stato si interessi e offra come servizio alla società civile l’opportunità di conoscere quella fede cattolica che ha prodotto tutto questo, mediante un insegnamento scolastico che, essendo opzionale e quindi scelto, non viola alcuna altra libertà di coscienza?

O si crede davvero – in tutta “coscienza” – che la possibilità dell’acquisizione, del tutto eventuale, di un mero credito scolastico alteri la genuinità della scelta e per questo leda le coscienze altrui?


Avv. Stefano Spinelli

Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici, Sezione locale Forlì-Cesena

Cassazionista, Dottore di Ricerca in Diritto Costituzionale.

lunedì 17 agosto 2009

L’ARGOMENTO DELLA SETTIMANA - 10 - 16 AGOSTO 2009

INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA E TAR DEL LAZIO. IGNORANZA, FAZIOSITA’, CONFORMISMO E MILLE ALTRE PIACEVOLEZZE.

Arrivati alle giornate ferragostane, col rilassante spettacolo di Milano che sembra quasi una città vivibile, anche chi (come il sottoscritto) in agosto lavora, ha un po’ di piacevole sensazione di vacanza. I ritmi si allentano, il lavoro cala, tutto è un po’ sfumato, rilassante.

Rilassante? Non sia mai! C’è una categoria che ti fa stare sempre all’erta, perché può sparare i suoi colpi nei momenti più impensati. Mi riferisco ai cretini laicisti, e chi vuole mi dia pure del fazioso per l’unione che faccio tra l’aggettivo e il sostantivo. (per i lettori abituali di Repubblica: “cretini” è l’aggettivo; “laicisti” il sostantivo). Sono infaticabili

Già, perché in questa vicenda della sentenza del TAR del Lazio, secondo la quale l’insegnamento della religione cattolica non può costituire credito formativo, e gli insegnanti della stessa non possono partecipare “a pieno titolo” agli scrutini, ci giocano, oltre a un indiscutibile rabbioso laicismo, anche una sostanziale stupidità, figlia di una madornale ignoranza. Trattasi di due streghe cattive che amano lavorare aiutandosi a vicenda.

Nella nostra magistratura, amministrativa o ordinaria che sia, è molto difficile ormai trovare qualcosa di buono. Ma col passare del tempo si sta evidenziando un ulteriore fattore di peggioramento (come se ce ne fosse bisogno…): l’ignoranza. E mi spiego subito. I giudici del TAR del Lazio erano sicuri, con la loro mirabile sentenza num. 7076, di far parlare di sé (e questa pare la prima preoccupazione del magistrato italiano); e poi facevano parlare di sé sciacquandosi la bocca con paroloni come “la libertà di espressione”, la “pari dignità di tutte le religioni”. Insomma, roba grossa e politicamente molto ma molto corretta, tanto che hanno subito incassato il plauso di un campione del conformismo più noioso, quale è il sig. Marco Pannella, digiunatore in servizio permanente effettivo, diffusore di spinelli, aborti, eutanasie ecc.

Ma se il Pannella è perdonabile, perché ormai da tempo cotto nel cervello, non sono perdonabili dei giudici che ignorano le leggi in vigore. E l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole è regolato dalla legge 25/3/1985 num. 121, che ratifica la revisione del Concordato tra Italia e Santa Sede, dove tra l’altro si legge che “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado” . Quindi, al più, se i giudici del TAR erano turbati dal dubbio che ci fosse una violazione costituzionale, dovevano sospendere il giudizio ed inviare gli atti alla Corte Costituzionale

Come dicevo, se a chiunque si può perdonare l’ignoranza delle leggi, tanto più considerando che ne abbiamo fin troppe, non sono però perdonabili quanti devono per la loro professione applicare le leggi. Magistrati, poliziotti, eccetera. Altrimenti, accettiamo anche che il medico possa ignorare qualche parte della medicina, o che l’ingegnere possa avere le idee un po’ confuse su come si costruisce un palazzo. E così via.

Ergo, i nostri valorosi magistrati hanno soddisfatto la loro libidine di notorietà, ma hanno anche fatto una misera figura. A che titolo infatti possano discriminare gli insegnanti di una materia il cui insegnamento nella scuola pubblica è previsto dalla legge, è un mistero. E le risposte possono essere solo due. O sono dei grandi ignoranti o sono dei grandi faziosi, che intanto fanno il possibile per usare del loro potere con fini partigiani, ben sapendo che nessuno mai li sanzionerà.

Non è certo la prima volta che troviamo dei magistrati che, anziché applicare la legge (UNICO compito al quale sono deputati), la “creano”. Si pensi ad esempio all’assassinio di Eluana Englaro, “autorizzato” sulla base di nessuna legge da giudici che peraltro nessuno mai condannerà, visto che a giudicarli dovrebbero essere altri giudici…

Quindi, anzitutto, i giudici del TAR del Lazio non hanno fatto il loro dovere, e se l’Italia fosse un Paese dove fosse ancora possibile avere fiducia nella giustizia, e se il CSM non fosse un ridicolo organo corporativo di protezione aprioristica, giudici di tal fatta sarebbero invitati a trovarsi un altro mestiere.

Ma ammettiamo che non fossero tutti ignoranti. E allora non si può dire altro che sono faziosi, e che la loro faziosità non nasce nemmeno da convinzioni ideologiche, bensì dall’antico modus vivendi italico alla Don Abbondio, sempre pronto a prendere la parte del più forte. Attualmente colpire il cattolicesimo è come sparare sulla Croce Rossa. È sicuro che non arriverà mai un colpo in legittima difesa. Ed è estremamente “in”. Chi colpisce la Chiesa Cattolica è sicuro di essere ben accetto a quella parte di Paese (minoritaria, ma per NOSTRA colpa molto più chiassosa della maggioranza) che si riconosce negli sproloqui domenicali di Monsignor Scalfari, o nel cattolicesimo riscritto a proprio uso e consumo da deviati mentali stile Bindi o Prodi.

Non scordiamoci che questo è il Paese che ha visto la vergogna di una Università nella quale si è impedito al Papa di parlare, o ricordiamoci che lo stesso Pontefice fu rappresentato (da qualche “artista” molto alla moda) come un vecchietto alquanto ripugnante e pervertito, in una mostra a Milano. E tale insulto restò esposto per diversi giorni, prima che il sindaco in persona se ne accorgesse e lo facesse rimuovere. Non scordiamoci che il nostro è il Paese in cui un padre omicida, Beppino Englaro, è andato in giro per le scuole a spiegare ai giovani quanto è bella la sua perversione morale. Né sono mancate Università che hanno chiamato a far lezione ex terroristi. In questo guazzabuglio, c’è spazio per tutti.

Mi viene in mente una frase di Giorgio Pisanò, e siete liberi di scandalizzarvi se la trovate troppo volgare: “In Italia ogni coglione che abbia da dire due o tre idiozie trova un uditorio”.

Ma vogliamo anche fare un’ipotesi assurda per salvare i miserrimi magistrati? Facciamola. L’Italia è in effetti sull’orlo di un tremendo abisso, la dittatura clericale ormai è alle porte, liberi pensatori e quanti non professano la religione cattolica vengono deportati in luoghi segreti, dove vengono condannati ai lavori forzati. Ecco che alcuni giudici valorosi, con sprezzo del pericolo, decidono di bloccare almeno nelle scuole l’avanzata del tremendo rullo compressore clerico-fascista.

E così fanno la figura dei fessi. Già, perché non conoscono più la distinzione fra catechesi e insegnamento della religione. Infatti lo scopo preciso della catechesi è la formazione del credente, e questa si fa nelle Parrocchie con le lezioni di catechismo, alle quali i genitori sono liberissimi di scegliere se mandare o no i propri figli.

L’insegnamento della religione cattolica è invece (lo dice la stessa parola) l’insegnamento di una tradizione religiosa che è parte fondante e non certo secondaria della nostra cultura, e che ha influenzato letteratura, arte, architettura, diritto e molte altre materie. L’insegnamento della religione cattolica non ha affatto lo scopo di convertire lo studente non credente, bensì di rendere edotti, credenti e non credenti, su una serie di valori religiosi e culturali che sono gli stessi che, nel VII secolo, permisero all’Europa, che era ormai ricaduta nella barbarie con la fine dell’Impero Romano d’Occidente, di rinascere e di ritrovare forme di convivenza civile, sulla spinta di quel formidabile movimento non solo religioso, ma anche sociale e culturale, che fu il monachesimo.

Liberissimo lo studente di restare ateo tutta la vita. Ma senza dubbio sarà meno preparato dal punto di vista culturale chi non conosce la religione cattolica che, tutt’oggi, senza che più ce ne rendiamo conto, influenza la nostra vita anche nei rapporti civili. Chi non la conosce capirà molto di meno ampi periodi della letteratura, della filosofia, che sia in positivo, sia in negativo, trovarono la loro fonte nella religione cattolica.

Qualcuno si chieda perché anche nel più sperduto paesino vediamo svettare un campanile, perché facciamo festa la domenica, e a Natale e a Pasqua, perché viviamo proprio nel 2009 e non in qualche altro anno. Lo so che sto dicendo banalità, ma qui ormai si scorda anche il banale buon senso, che ci dice che la nostra è una civiltà cristiana, sviluppata attraverso la Chiesa cattolica, e che da essa ha sempre attinto, fino a pochi anni fa, anche le proprie basi morali.

È una civiltà cristiana nella quale a nessuno è stato imposto di essere cristiano. E anche questo dovrebbe suggerire qualche riflessione ai nostri rabbiosi laicisti.

Ora, è semplicemente ridicolo voler togliere valore all’insegnamento della religione cattolica (che tra l’altro, ricordiamolo, è facoltativo), perché allora tanto vale togliere valore anche alla Divina Commedia, a qualche migliaio di opere d’arte, tra Chiese e monumenti e pitture, o a tutta la Storia di fenomeni sociali di eccezionale portata quali (tanto per fare un esempio) il movimento cooperativistico, o le istituzioni ospedaliere.

In una scuola in cui un corso di danze caraibiche vale come “credito formativo”, un pugno di giudici in cerca di notorietà decreta che l’insegnamento della religione cattolica non può avere valore.

Sono stupidi o in malafede? Torno alla domanda di prima e non pretendo di dare una risposta.

Di certo però c’è una considerazione da fare. Certamente l’assurda sentenza del TAR del Lazio verrà annullata dal Consiglio di Stato, dove si spera siedano dei giudici con un po’ meno segatura al posto del cervello. Però intanto qualcosa si è fatto, e magari qualche altro TAR, qua e là, potrà emettere sentenze analoghe. Qualcosa si è fatto, e precisamente si è ottenuto lo scopo di gettare un po’ di confusione e di disorientamento tra gli studenti e le loro famiglie. Sicché non sarebbe davvero strano se meno studenti, nel dubbio, scegliessero di frequentare l’ora di religione, optando per corsi alternativi, dalla gastronomia uzbeka, allo studio degli animali nel deserto del Sahara. Perché di sicuro nessuno metterà mai in dubbio la validità, come crediti formativi, di corsi di tutti i generi, magari anche i più strampalati.

E così avremo sempre più giovani totalmente ignoranti circa la Chiesa cattolica e la sua tradizione. E sarà molto ma molto più facile continuare nel tentativo di demolizione e di diffamazione della Chiesa stessa.

Del resto, qualcuno deve pur portare a compimento uno dei grandi sogni di Hitler: la distruzione della Chiesa cattolica.

PS: la “laicizzazione” non è certo una novità e colpisce tutti i settori. Né è iniziata da oggi. Due esempi significativi: il cartone animato della Walt Disney, “Dumbo” e il film di Stanlio e Ollio, “Fra Diavolo”. Due piccoli capolavori nel loro genere, che divertono tutt’oggi, a decenni dalla loro produzione.

Ebbene, nel cartone animato “Dumbo”, il piccolo elefante viene portato ovviamente da una cicogna alla mamma elefantessa, che lo attende con ansia. La cicogna, in abito da postino, al momento di consegnare il fagotto che contiene il piccolo, dice “un regalo da Gesù, per amarlo sempre più”. Questo nella versione originale. A partire dai primi anni ottanta nelle videocassette di questo cartone animato la parola “Gesù” è scrupolosamente tolta, e la cicogna si limita a dire alla mamma elefantessa di firmare il bollettino per ricevuta.

Nel film “Fra Diavolo”, insieme alla vicenda principale, che vede gli spassosi pasticci combinati da Stanlio e Ollio, divenuti loro malgrado servitori del famoso bandito, c’è anche una storia d’amore. La figlia dell’oste è innamorata di un giovane ufficiale, ovviamente povero, ma il padre le impone le nozze con un giovane tanto ricco quanto antipatico e vanesio. Arriva il giorno delle indesiderate nozze e verso l’osteria che è il luogo della vicenda si avvicina il corteo che accompagna lo sposo. Ci sono giovanette che danzano e gettano fiori, ci sono giovanotti che cantano e c’è un frate che procede in silenzio. Chiaramente si tratta del celebrante. Anche in “Fra Diavolo” le successive versioni in videocassetta hanno visto il taglio della censura laicista: il corteo è sempre lo stesso, ma è stato eliminata la figura del frate. Non si sa bene chi celebrerà il matrimonio, ma non sia mai che si tratti matrimonio religioso…

Non vi ho dato che due esempi di quanto dicevo in apertura: i cretini laicisti sono infaticabili.