mercoledì 19 agosto 2009

TAR DEL LAZIO E INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA

Ricevo dal carissimo Don Gabriele Mangiarotti, direttore del sito www.cultura cattolica.it questo articolo, redatto dall' avv. Stefano Spinelli, Presidente della sezione di Forlì-Cesena dell'Unione Giuristi Cattolici. Poichè si tratta di un testo di grande chiarezza ed efficacia, ho il piacere di proporlo a quanti seguono il mio blog, ringraziando di cuore il caro amico Don Gabriele Mangiarotti, da sempre sul fronte dell'affermazione della Verità e della libertà di cultura.

L’insegnante (di religione cattolica) dimezzato

1. Un insegnante a metà (come il “visconte” di Calvino), un “quasi” insegnante. Deve insegnare (lo dice il nome), ma non troppo. Che cosa debba insegnare, poi, è tutto dire, visto che non deve urtare le suscettibilità di nessuno. Soprattutto quest’insegnante di religione cattolica non dovrebbe parlare di religione cattolica, argomento che – riguardando una scelta “coinvolgente l’interiorità della persona” – lederebbe le altre religiosità interiori.

In ossequio a questo – purtroppo comune ma errato – modo di pensare, si è pensato bene di togliergli anche “il voto”, espressione della sua attività valutativa (ed è noto che un insegnante senza voto è come un cavaliere senza cavallo o un visconte senza contea).

Così, la magistratura ha statuito che l’insegnante di religione non può partecipare “a pieno titolo” agli scrutini scolastici, né può far conseguire crediti formativi agli studenti cosiddetti “avvalentisi”, per presunta disparità di trattamento nei confronti di quelli non avvalentisi: “l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti o dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un titolo formativo nelle proprie confessioni (islamica, ebrea, cristiane, di altro tipo) ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica”.

Questa è la novità di oggi, sancita dal T.A.R. Lazio, nella sentenza 7076 (che ha annullato due ordinanze dell’ex Ministro dell’Istruzione Fioroni), pubblicata poco prima di ferragosto, la cui notizia è comparsa sui principali giornali, con seguito inevitabile di commenti e dichiarazione dell’attuale Ministro Gelmini di appellarsi al Consiglio di Stato.

1.1. La sentenza ha annullato le ordinanze ministeriali 26/07 e 30/08, aventi ad oggetto le istruzioni per lo svolgimento degli esami di stato per gli anni scolastici 2006/2007 e 2007/2008, nella parte in cui prevedono che i docenti di religione partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernente l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento.

Il ricorso era stato proposto da varie consulte per la laicità delle istituzioni (tra cui il comitato bolognese scuola e costituzione e quello torinese per la laicità della scuola, nonché il centro di iniziativa democratica degli insegnanti e democrazia laica), da varie associazioni cd. per il libero pensiero, da varie associazioni delle chiese evangeliche, da altre riferibile alle chiese avventiste, alla chiesa battista, alla tavola valdese, alle chiese pentecostali, alla chiesa evangelica luterana, dall’unione delle comunità ebraiche italiane, il tutto sotto la supervisione dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (leggi: Odifreddi).

Colpisce questo mix di chiese, democrazia, ateismo, laicità, libero pensiero, razionalismo.

2. Ma che razza di insegnante è quello al quale sarebbe impedito di partecipare a pieno titolo alla valutazione degli studenti?

È evidente qui la volontà di depotenziare dall’interno l’insegnante di religione, vista l’impossibilità di sopprimerlo come figura ormai presente nel panorama scolastico italiano, grazie all’art. 9 del Concordato, che prevede espressamente l’ora di religione cattolica nelle scuole pubbliche per il suo valore storico-culturale, e grazie alle sentenze della Corte Costituzionale che hanno più volte confermato la legittimità dell’ora di religione (specie con la pronuncia 203 del 1989).

Se è legittima la presenza dell’insegnante di religione cattolica nella scuola pubblica, allora la sua attività educativa e valutativa deve essere quella di tutti gli altri insegnanti.

Un insegnante “intero”, non dimezzato. Altrimenti è un'altra cosa. Altrimenti è tutta una farsa: il Concordato dice che “continua ad essere assicurato l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica” e i giudici interpretano quella norma nel senso che però quell’insegnamento non è propriamente tale, perché non può essere insegnato da insegnanti-insegnanti, bensì da pseudo-insegnanti, che non partecipano agli scrutini e non danno crediti scolastici né formativi. Il problema non è semplicemente che così si crea l’insegnante di serie B, ma l’esito veramente discriminante è che lo stesso insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica diventa uno scherzo (con buona pace del Concordato).

3. E dove sta scritta la conclusione a cui arrivano i giudici? Da nessuna parte, trattandosi di una loro interpretazione della stessa norma concordataria, alla luce di un malinteso principio costituzionale di laicità dello Stato e di non discriminazione nei confronti degli studenti non avvalentisi.

3.1. Vediamoli allora questi due principi.

Secondo i giudici amministrativi in un “regime di pluralismo confessionale e culturale” lo Stato dovrebbe porsi in condizione di assoluta “neutralità” rispetto alle “differenti credenze religiose” che convivono all’interno delle “moderne società democratiche”, in cui “non può manifestarsi una preferenza per una particolare confessione o fede religiosa”. “Certamente – afferma la sentenza – può essere considerata una violazione del principio di pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con una implicita promessa di vantaggi didattici”, in quanto “le cd. materie alternative spesso o non vengono attivate affatto per mancanza di risorse ovvero nella realtà delle cose si riducono al semplice parcheggio degli alunni in qualche aula”. Di conseguenza, il sistema attuale comporterebbe “che le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione cui non credono, ovvero a subire un’ulteriore discriminazione di carattere religioso” ed avrebbe “l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza… in vista di un punteggio più vantaggioso nel credito scolastico”.

Non par vero, ma questa è la motivazione: trattasi di un caso sotterraneo di “violazione delle coscienze”, per cui lo studente non cattolico sarebbe indotto e costretto ad “abiurare” il proprio credo, il proprio ateismo o agnosticismo… per ottenere un credito scolastico!

In verità, in giro per le scuole pubbliche italiane non vediamo proprio tutti questi studenti correre verso l’ora di religione con l’obiettivo di avere più crediti. Né vediamo alcuna “violazione delle coscienze” nel fatto che l’insegnante di religione partecipi agli scrutini: la “sorte” di uno studente non è certo legata a detto insegnamento (come ognuno ben sa). E comunque, avvalersi dell’ora di religione non vuol certo dire essere o diventare cattolici, o – come detto in sentenza – “accettare l’insegnamento di una religione in cui non si crede” (e subire quindi una “discriminazione di carattere religioso”). Vi può partecipare, infatti, anche chi ha un mero interesse alla cultura cattolica ed alla dottrina della Chiesa. Allo stesso modo, chi studia Dante o Jacopone da Todi – a dire il vero sempre meno – non può certo dirsi, per ciò solo stesso, fedele in Cristo né che abbia “accettato” l’insegnamento che da essi proviene (altrimenti anche in questo caso dovremmo parlare di “discriminazione di carattere religioso”).

Ci sbaglieremo, ma l’argomento sembra abbastanza tortuoso e molto pretestuoso.

A ben vedere, poi, esso presuppone un dato di fatto (e non di diritto) del tutto inconsistente: le materie alternative spesso non vengono attivate. Ma ciò – se anche fosse vero – evidenzia semmai un problema organizzativo, ossia l’attivazione anche degli insegnamenti alternativi (sempre che ve ne sia richiesta, ciò di cui si dubita fortemente). Ma sulla base del solo fatto che “spesso” questi ultimi non vengono attivati, pare non propriamente corretto concludere che… allora i professori di religione non possono più in nessun caso fare scrutini o dare crediti perché altrimenti si altera il principio di laicità dello Stato!

3.1.2. In ogni caso, il ragionamento dei giudici parte da un presupposto che non si condivide (il che non è certo determinante) ma che non corrisponde neppure all’interpretazione delle norme costituzionali così come già offerta – in diverse occasioni – dalla stessa Corte Costituzionale.

Quest’ultima, in particolare nella sentenza 203 del 12 aprile 1989, definisce “il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.”. Esso “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (a seguito della abrogazione del principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato).

Trattasi di definizione adottata “in positivo”: non mera neutralità dello Stato verso le varie confessioni e – per traslato – neppure necessità che le varie religioni abbiano uno stesso identico trattamento e rilevanza nell’ambito dell’ordinamento giuridico (come da molte parti si vorrebbe); bensì garanzia e tutela da parte dello Stato per l’aspetto religioso, in tutte le sue espressioni, ciascuna ovviamente con la sua specificità.

Questa attenzione e questa garanzia ben può assumere “intensità” differenti, in ragione dei contenuti e della cultura religiosa di riferimento

Si badi bene che, proprio sulla base di detto principio, la Consulta ha più volte confermato la legittimità dell’ora di religione cattolica nella scuola pubblica “impartito in conformità alla dottrina della Chiesa”, la cui assicurazione da parte dello Stato è stata motivata sotto un duplice aspetto: a) “il valore della cultura religiosa” in quanto tale, formativo di per sé; b) “tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (elemento specifico della religiosità cattolica in Italia) (art.9, co. 2, della Legge 121/1985; e punto 5, lett. a del protocollo Addizionale).

Lo Stato deve quindi assicurare l’insegnamento della religione cattolica, il quale è facoltativo nel senso che soltanto l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.

Una volta verificatasi tale condizione, detto insegnamento è un insegnamento scolastico a tutti gli effetti, soggetto a tutte le regole proprie di ogni insegnamento, sia didattiche che valutative, senza alcuna limitazione, che sarebbe – questa sì – discriminante rispetto agli studenti avvalentisi.

3.1.3. In conclusione, non si può applicare (l’errato) principio di neutralità dello Stato per sostenere l’illegittimità del voto/credito dato dall’insegnante di religione, per il semplice fatto che detto principio, a monte, non è stato applicato per sostenere l’illegittimità dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, che difatti viene assicurata dallo Stato (a differenza, per esempio delle altre confessioni religiose).

3.2. A queste considerazioni segue anche la ritenuta erronea applicazione – da parte dei giudici – del principio di non discriminazione, che ha riferimento nell’art. 3 Cost.

E’ infatti evidente che, se a posizioni eguali è ragionevole che corrisponda un eguale trattamento, allo stesso modo, a posizioni differenti è ragionevole che corrisponda un trattamento differente.

I giudici sostengono che chi non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica è discriminato per il fatto che “lo Stato non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni (islamica, ebrea, cristiane di altro rito) ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione”.

Anche in tal caso l’argomento pare pretestuoso, se non altro per il fatto che i crediti formativi sono acquisibili anche grazie ad attività eventualmente svolte fuori dalla scuola, esprimendo generiche esperienze da cui possano derivare competenze coerenti con il tipo di corso cui si riferisce l’esame di stato. Essi sono quindi diversificati per ciascun alunno e non certo riconducibili al principio di non discriminazione.

3.2.1. Ma anche in tal caso si vuole andare al nocciolo della questione.

Per il nostro ordinamento – con particolare riguardo all’art. 9 del Concordato – la religione cattolica (pur non essendo più unica religione di Stato) non è sullo stesso piano delle altre confessioni, rappresentando un valore storico-culturale che – volenti o nolenti – appartiene a tutti ed è riconoscibile da tutti. Su questo presupposto, il nostro ordinamento dispone (e ne è stata affermata la legittimità) di continuare ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica (per chi ne voglia far opzione).

La medesima intensità di garanzia non vige in egual modo per le altre confessioni religiose (il cui insegnamento non è parimenti assicurato dallo Stato).

Orbene, le diverse situazioni di partenza giustificano anche un diverso trattamento: l’assicurazione da parte dello Stato dell’insegnamento della religione cattolica determina la subordinazione degli studenti agli esiti (favorevoli o sfavorevoli, a seconda dello studio o dell’impegno) propri di ogni insegnamento e la loro soggezione alla valutazione anche dell’insegnante di religione.

La medesima regolamentazione non sussiste per altri insegnamenti religiosi. Né questi ultimi possono quindi “limitare” il libero e regolare svolgersi dell’insegnamento della religione cattolica (compresi voti e crediti), accampando a motivo la mancanza di un identica regolamentazione anche per loro.

3.2.2. In conclusione, poiché l’assicurazione dell’ora di religione vale solo per quella cattolica, sulla base dell’inculturazione che la fede ha trasmesso e trasmette tuttora alla nostra società, l’attribuzione di crediti formativi agli studenti avvalentisi non produce discriminazione nei confronti di quelli non avvalentisi, per le cui confessioni religiose non è prevista dall’ordinamento una analoga considerazione e protezione.

4. Si rileva, infine, che le conclusioni cui giunge la sentenza non sono affatto suffragate da alcuna norma giuridica. Anzi. La norma giuridica esiste (art. 9 della Legge 121 del 1985) e dice tutto il contrario della sentenza, assicurando l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, purché facoltativo.

Ciò è tanto vero che gli stessi ricorrenti avevano chiesto ai giudici di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma davanti alla Corte Costituzionale. I giudici hanno ritenuto invece di arrivare, con la sola interpretazione della norma “costituzionalmente orientata”, coma va di moda sottolineare oggi, a far dire alla norma qualcosa che non dice assolutamente (ossia che l’insegnante di religione non dovrebbe partecipare a pieno titolo agli scrutini).

In sostanza, si rileva una odierna tendenza giudiziale a riferirsi direttamente alla Costituzione ed alla sua – più o meno estesa ed a volte fantasiosa – interpretazione per innovare l’ordinamento giuridico mediante decisioni che assumono sempre più natura e contenuto di vere e proprie norme giuridiche, bypassando completamente il Legislatore ed il Parlamento nella funzione costituzionale riservatagli.

Si ritiene che detta tendenza (si fa qui riferimento anche al caso Englaro, ove si è utilizzato il medesimo meccanismo di applicazione diretta di norme costituzionali interpretate in modo tale da individuare il principio giuridico inesistente a livello normativo ed anzi profondamente contrastante con altre norme penali vigenti e peraltro chiarissime) ponga un problema di democraticità sotto due aspetti.

a) In primo luogo, la Costituzione contiene per la maggior parte norme cd. di principio, ossia diritti enunciati genericamente o indirizzi programmatici da perseguire.

Ora, più la norma è “di principio” e più la sua gamma di possibili interpretazioni è vasta, arrivando sino a possibili contenuti che mal si conciliano con il testo letterale e probabilmente con la volontà costituente. Il pericolo è peraltro maggiore in quanto spesso la norma costituzionale viene interpretata unita ad un’altra norma sempre di principio.

b) Mediante detto meccanismo la Costituzione viene quindi utilizzata per “riempire” vuoti normativi o per estrapolare dal magma interpretativo un specie di “super norma”, di valore costituzionale, rispetto alla quale conformare l’ordinamento vigente.

Sempre più spesso, cioè, il giudice, attraverso il suo controllo di costituzionalità cd. “diffuso” diventa – lui stesso – legislatore.

Si ritiene che ciò determini un problema di democraticità, non essendo il giudice rappresentativo della volontà popolare al pari del legislatore.

5. Al di là delle argomentazioni giuridiche, si vuole proporre una considerazione finale.

Tutta la sentenza è percorsa da un filo conduttore di fondo, secondo il quale la religione non sarebbe una materia scolastica come le altre, per il fatto che sarebbe “un insegnamento di pregnante rilievo morale ed etico che, come tale, abbraccia quindi l’intimo profondo della persona che vi aderisce” (inoltre “la sfera religiosa spetta indifferentemente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici”). E’ per questo motivo che non potrebbe “manifestarsi un preferenza per una particolare confessione o fede religiosa”, dovendosi “garantire il ruolo imparziale dello Stato”, pena la violazione della libertà di coscienza nelle questioni religiose.

Vi è – in tale assunto – una concezione dissociata di uomo, scisso irrimediabilmente tra sfera materiale e spirituale, tra corpo e anima, tra terra e cielo.

Le due parti non sono connesse: la seconda non può esprimersi in nessun modo a livello cosciente ed esterno, perché è un fatto del tutto personale ed intimo che riguarda la propria coscienza. In un “ordinamento democratico moderno”, caratterizzato da pluralismo e relativismo, la “sfera religiosa” deve annullarsi esternamente, perché una qualunque manifestazione esterna – dalla sfera spirituale alla sfera materiale umana – potrebbe “alterare” il precario equilibrio di coscienze religiose (o atee) diverse coabitanti assieme, ed il ruolo di “gendarme” imparziale dello Stato non potrebbe permetterlo.

In questo modo, trattando il fenomeno religioso solo intimisticamente, si annulla del tutto ogni valore religioso nell’uomo, ma si annulla, del pari, lo stesso uomo, la sua stessa natura, che fortunatamente è un insieme non dissociabile di corpo e anima. Come altrimenti comprendere tutto quanto di materiale (arte, cultura, opere, attività) ci ha lasciato la fede cattolica? Forse che I Promessi Sposi sarebbero pensabili costretti nella sola sfera della coscienza del Manzoni? E la basilica di San Pietro? E la Pietà di Michelangelo? E l’opera di Madre Teresa a Calcutta?

Tutto questo altera le coscienze di chi non ha la fede cattolica?

E lo Stato dovrebbe non riconoscere tutto questo come “proprio” patrimonio storico culturale e religioso, dovrebbe rimanere indifferente, neutrale, per non urtare le coscienze altrui? Non è invece importante che lo Stato si interessi e offra come servizio alla società civile l’opportunità di conoscere quella fede cattolica che ha prodotto tutto questo, mediante un insegnamento scolastico che, essendo opzionale e quindi scelto, non viola alcuna altra libertà di coscienza?

O si crede davvero – in tutta “coscienza” – che la possibilità dell’acquisizione, del tutto eventuale, di un mero credito scolastico alteri la genuinità della scelta e per questo leda le coscienze altrui?


Avv. Stefano Spinelli

Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici, Sezione locale Forlì-Cesena

Cassazionista, Dottore di Ricerca in Diritto Costituzionale.

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